Artemisia Gentileschi: Storia di Una Pittrice Guerriera

 

Artemisia Gentileschi: Storia di Una Pittrice Guerriera

 

di Lavinia Anselmi
Repost: freedamedia.it

Ricordate la nostra visita alla mostra di Artemisia la scorsa primavera?
Ecco un bell'articolo per ripassare l'appassionante avventura di Artemisia nel Seicento italiano, un grazie a Lavinia Anselmi.
Conosciamo le storie di tante donne che hanno sfidato i costumi del proprio tempo, ma quella di Artemisia Gentileschi mi ha affascinata in particolare modo, perché quando me la raccontarono non conoscevo ancora nessuna pittrice donna. E infatti la sua è una vita all’insegna  della lotta per emergere in un ambito tutto maschile: quello della pittura e dell’arte del ‘600.
Le sue vicende raccontano di una bambina curiosa e di una ragazza fortemente determinata; di come sia stata moglie, madre, amante appassionata oltre che donna d’affari, e soprattutto una brillante artista. Viene educata all’arte pittorica nella bottega del padre, e dopo aver affrontato con tenacia un estenuante processo per stupro a diciott’anni, prende il controllo della sua vita affrontandola con passione, senza mai rinunciare a seguire il proprio destino – a costo di ricominciare da zero più volte. E con la sua splendida pittura conquista le corti più importanti del suo tempo. Questa è Artemisia.


Artemisia nasce l’8 luglio del 1593 in una Roma fervente dal punto di vista culturale e artistico. Il padre è un pittore di origini toscane, Orazio Gentileschi, che da subito nota l’interesse della figlia per la pittura e ne scopre il precoce talento. La piccola, infatti, divenuta orfana di madre a dodici anni, si prende cura dei fratelli più piccoli e assiste il padre in studio. Qui, scopre il mondo dei colori e delle tele, dimostrando di essere un’ottima aiutante. Deciso a sostenere la sua passione, il padre le insegna i segreti del mestiere, partendo dalle basi: la preparazione dei materiali. Artemisia si destreggia tra colori, oli, pennelli e tele, il tutto rigorosamente entro le mura domestiche, perché l’uomo non può permettere alla figlia di avere un percorso di formazione normale: la pittura era considerata una pratica maschile. Questo tuttavia non ha impedito ad Artemisia, non solo di ricevere un’ottima educazione artistica, ma anche di conoscere, filtrati dagli insegnamenti del padre, gli artisti che frequentavano la città. Attraverso le influenze che alcuni di loro ebbero sullo stile di pittura del padre – come il Caravaggio, che spesso si riforniva di materiali nella sua bottega – la giovane percepisce gli stimoli della scena romana. Dunque, tra il 1608 e il 1609, da semplice allieva Artemisia comincia a produrre dei lavori propri e ritocca alcune tele del padre. Secondo i critici, la tela che la introduce effettivamente nel mondo dell’arte è la sua Susanna e I vecchioni, del 1610.



Non ci sono fonti dettagliate sulla sua formazione e persistono ancora dei dubbi sul fatto che, nelle opere di questi anni (Susanna compresa) ci sia ancora l’intervento del Gentileschi. Ma possiamo dire con certezza che attorno al 1612 è una pittrice a tutti gli effetti – grazie ad alcune missive del padre, datate in quell’anno, in cui descrive con orgoglio i risultati della figlia. Le tele di quel periodo hanno come protagoniste le donne di episodi biblicie in particolare Giuditta che decapita Oloferne, di cui esistono molte versioni, realizzate in periodi diversi della sua produzione artistica. Si vedono le influenze del Caravaggio nell’impiego di luci e ombre, nell’utilizzo dei colori, così come emerge fin da subito la passione per i dettagli di abiti e gioielli.



Quel che è ben più documentato invece è l’episodio giudiziario che la coinvolge quando ha 18 anni. Nel 1611 subisce uno stupro da parte dell’amico del padre Agostino Tassi, un pittore conosciuto in città come “lo smargiasso”; un personaggio dal passato turbolento di cui però Orazio ha fiducia, tanto da affidargli la giovane Artemisia per approfondire lo studio della prospettiva. Dopo l’episodio di violenza, denunciato al padre, Artemisia crede alle promesse di Tassi di sposarla per rimediare al disonore subìto e continua la relazione per un anno. Lo stupro – che all’epoca era ritenuto più come un’offesa alla reputazione della donna che un danno alla persona – poteva infatti essere “riparato” con un matrimonio. Ma quando si scopre che l’uomo non la può sposare perché già coniugato, Orazio denuncia il collega e inizia un processo giudiziario che pur conclusosi con la sua condanna, va a pesare più su Artemisia che su Tassi. La vicenda giudiziaria infatti è complessa e umiliante. Le prove cui la donna deve sottoporsi per verificare la sua onestà sono al limite della tortura e non mancano i falsi testimoni che cercano di gettare fango sulla moralità della giovane. Ma Artemisia non si tira indietro e arriva fino in fondo, ottenendo una vittoria. La sua reputazione però è ormai compromessa e le voci diffamanti sul suo conto continuano a girare in città, rendendole difficile proseguire il suo percorso artistico e pesando su di lei come continue umiliazioni. Inoltre, per quanto il Tassi avesse scelto come pena l’esilio, di fatto non si mosse da Roma per concludere i suoi impegni di lavoro. Orazio dunque, per ripristinare l’onore della figlia, la dà in sposa al pittore Pierantonio Stiattesi. Una volta sposata, Artemisia non si lascia sfuggire la possibilità di seguire il marito a Firenze e si allontana da Roma, lasciandosi alle spalle quella drammatica situazione e staccandosi per la prima volta dalla figura paterna.
Comincia così una nuova vita e grazie allo zio Aurelio Lomi viene introdotta alla corte di Cosimo II. Artemisia ha così modo di frequentare gli ambienti culturali e artistici che le erano stati preclusi negli anni della sua formazione. Conosce personalità di spicco della Firenze del tempo – come Galileo Galilei e Michelangelo Buonarroti il giovane, nipote del grande artista. Non mancano i lavori e comincia a costruirsi una solida fama di artista che le procura denaro e una buona nomea. Tanto da essere la prima donna ammessa all’Accademia del Disegno di Firenze, dove vi rimane fino al 1620. Degli anni fiorentini sono le figure femminili fiere e volitive (come la Maddalena, Santa Caterina D’Alessandria e Santa Cecilia) che hanno vesti giallo-oro con motivi raffinati, espressioni assorte o accigliate e gioielli preziosi ad accentuarne il carattere e la forza. I suoi nudi femminili sono fortemente sensuali e continua a evolvere il suo stile, imparando dalla scuola fiorentina.



In questi anni però, se può vantare grandi successi a livello professionale, deve fare i conti con un matrimonio deludente. La coppia ha dei figli ma è evidente che sia legata dagli interessi economici. E se prima poteva essere stata Artemisia a beneficiarne, col passare del tempo la situazione si rovescia: Stiattesi si rivela essere un uomo più dedito al lusso che agli affari – collezionando ingenti debiti che la moglie deve pagare. A questa situazione economica sempre più precaria si aggiunge la relazione travolgente tra Artemisia e il nobile Francesco Maria Maringhi che fa esplodere uno scandalo, a causa del quale si vede costretta a lasciare Firenze e partire in direzione di Roma.
A differenza di quando ha lasciato la città diversi anni prima, al suo ritorno Artemisia è una pittrice affermata, ammirata e sostenuta dall’ambiente artistico che ora può finalmente frequentare. Ma nonostante la stima di molti colleghi e potenti della città, il lavoro che si aspetta non arriva. Le grandi committenze le sono precluse e riesce a ottenere solo qualche lavoro da ritrattista. Si vede dunque costretta a ripartire in cerca di maggior fortuna e dopo un lungo peregrinare di città in città si ferma a Napoli, dove rimarrà per il resto della vita. Si inserisce facilmente in città, stringendo amicizia con molti dei suoi colleghi, e per la prima volta si trova a dipingere per una chiesa la cattedrale di Pozzuoli. Si allontana solo per alcuni brevi lavori e per intraprendere, nel 1638, un viaggio alla corte di Carlo I, a Londra, dove il padre lavora come pittore. Ma le sue condizioni di salute sono molto gravi e muore l’anno successivo. Poco dopo anche Artemisia rientra a Napoli, dove riprendere la sua attività per personalità illustri come Filippo IV di Spagna e Antonio Ruffo di Sicilia. Poche sono le notizie della sua produzione artistica dell’ultimo periodo, ma certo è che continua a variare il suo stile, introducendo nuovi elementi. Morirà nel 1653 e verrà seppellita presso la chiesa di San Giovanni Battista dei Fiorentini. Sulla lapide solo due parole: Heic Artemisia – qui giace Artemisia.

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